Onorevoli Colleghi! - Da oltre un ventennio si dibatte nel nostro Paese, nella società e all'interno dell'Istituzione di cui noi siamo parte, di riforme istituzionali. Ma alcune parti della Costituzione, entrata in vigore nel lontano 1948, non hanno mai visto la possibilità di essere riformate per il semplice motivo che esse non sono mai state attuate.
      Ci riferiamo in modo specifico all'articolo 49 della Costituzione, il quale recita testualmente: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». La formulazione fu il frutto della convinzione, formatasi tra i Costituenti, del nuovo ruolo assunto dai partiti politici nella società rispetto al modello che aveva caratterizzato l'esperienza parlamentare prefascista. Tra i proponenti le formulazioni dell'articolo in oggetto, Lelio Basso aveva ben chiaro il nesso tra libertà di associazione politica e necessità di garantire un'azione coerente. Il concetto fu chiarito puntualmente nell'Assemblea costituente con queste parole: «È chiaro che oggi il parlamentarismo come lo si intendeva una volta non lo si potrà più riprodurre, poiché il deputato non è più legato ai suoi elettori, ma al suo partito. Ciò presuppone l'esistenza di una disciplina di partito». In queste parole è riconoscibile la convinzione, diffusa nell'Assemblea costituente, che il futuro assetto costituzionale doveva avere nella democrazia, e nella disciplina conseguente, il perno fondante il rapporto tra cittadini e istituzioni

 

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e che il tramite tra i due soggetti, ovvero i partiti politici, non potevano sottrarsi dall'applicare al proprio interno il metodo democratico ritenuto fondamentale per la fisiologia dei rapporti politici.
      Tutti i lavori assembleari furono connotati da un sentimento di grande fiducia nei confronti dei partiti politici quali elementi fondamentali per la realizzazione nel Paese della democrazia. Essi avrebbero avuto il compito di creare un rapporto stabile e duraturo tra sovranità popolare e istituzioni rappresentative, fragilissime nella prima fase repubblicana successiva alla dittatura fascista. Erano necessarie aggregazioni sociali in grado di garantire la rappresentazioni di posizioni di parte ma anche in grado di confrontare liberamente i rispettivi interessi e posizioni. I cittadini avrebbero costituito il fondamento dei partiti tramite la loro partecipazione attiva e questi avrebbero garantito loro la partecipazione alla vita politica dell'ordinamento stesso.
      Si superava la posizione individualista che aveva connotato l'azione parlamentare prefascista per sostituire ad essa una sintesi di attività politiche già mediate da livelli intermedi di rappresentanza, in una concezione nella quale il carattere compromissorio del potere politico, secondo le concezioni risalenti a Montesquieu, si realizza attraverso un'operazione a cerchi concentrici nella quale le spinte contrapposte esistenti nella società giungono al momento della decisione politica già mediate in luoghi di sintesi intermedia.
      La funzione dei partiti politici e delle altre formazioni sociali avrebbe favorito l'affermazione di una democrazia matura, istituzionalizzata, che per il tramite degli stessi partiti avrebbe garantito contemporaneamente la proposta politica e una funzione di controllo dell'azione dei rappresentanti. Questo secondo aspetto, complementare al primo, da svolgere al di fuori delle sedi istituzionali, si fondava sulla necessità di una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica del Paese, non limitandosi al mero momento elettorale ma garantendo loro una partecipazione continua alla vita politica, in modo democratico, nonché l'esercizio effettivo dei diritti politici, attraverso la raccolta delle idee e del contributo di ciascuno alla vita politica. Per dirla con le parole del Mortati, altro insigne Costituente, per il tramite dei partiti «si preparano i cittadini alla vita politica e si dà ad essi di esprimere organicamente la loro volontà».
      Nella realtà dello Stato contemporaneo, quindi, i partiti politici svolgono una fondamentale funzione di collegamento fra governati e governanti, aggregando sulla base di una visione comune le domande emergenti dalla società civile e, operandone una sintesi, le trasferiscono nell'apparato statale in modo da consentire scelte collettive semplificate e strutturate. Più di ottant'anni fa, James Bryce, nella sua opera classica, «Modern Democracies» (Londra, 1921), affermava: «I partiti sono inevitabili. Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo potrebbe funzionare senza di loro». Essi rappresentano un principio ordinatore e semplificatore, «creano l'ordine dal caos di una moltitudine di elettori», perciò sono indispensabili per il funzionamento della democrazia. Le funzioni che i partiti politici esplicano (organizzazione del consenso, formazione e selezione dei candidati alle cariche pubbliche, coordinamento delle loro rappresentanze nelle istituzioni politiche eccetera) sono ritenute sistemiche, ovvero necessarie al regolare funzionamento dei sistemi democratici. Si può quindi affermare che «la buona salute delle democrazie dipende dalla buona salute dei partiti» (Oreste Massari, I partiti politici nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari, 2004, pagina XII).
      La descrizione fatta non appartiene più alla realtà che viviamo e ciò è da imputare, crediamo, anche alla mancata attuazione dell'articolo 49 della Costituzione. La democraticità come metodo nel concorso alla determinazione della politica nazionale deve essere effettiva, non solo nominale. E le recenti vicende elettorali, il sistema adottato, con una sorta di investitura dall'alto dei candidati, è considerabile come un epifenomeno strutturale della grande rilevanza assunta dai partiti
 

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politici all'interno delle istituzioni senza che, di converso, ci si sia mai preoccupati di applicare la lettera e, quindi, lo spirito della Carta fondamentale. Quale democrazia può esserci in un modello di partito politico che non raccoglie le istanze dal basso ma che impone dall'alto le proprie decisioni?
      La determinazione della politica nazionale si attua mediante due modi ben individuabili: la selezione delle candidature, di cui abbiamo già detto, e la determinazione dei programmi che i candidati intendono realizzare una volta all'interno delle istituzioni rappresentative.
      Ciò presuppone, affinché l'assioma possa avere validità e coerenza, che il partito politico sia il luogo nel quale le scelte e le strategie politiche sono discusse ed elaborate: il che implica, da un lato, una capacità elaborativa e progettuale del partito e, dal l'altro, una democrazia interna in grado di fare sì che le decisioni adottate siano il frutto dell'apporto delle diverse istanze interne, condotte a sintesi mediante regole partecipative e democratiche. Tale condizione è sempre stata assai critica nella vita dei partiti politici repubblicani, con una costante erosione degli spazi di libertà. Attualmente la conformazione oligarchica dei processi decisionali, cui si accompagna il sostanziale azzeramento della partecipazione democratica degli iscritti, è la causa per cui oggi i partiti politici non sono più un luogo di elaborazione politica e progettuale. Spesso essi diventano sedi di trattativa e, magari, di spartizione dei benefit dell'azione di governo per i gruppi dirigenti. Si profila un partito politico come comitato elettorale di questo o quel candidato, come comitato di sostegno di questo o quel governante. Nulla potrebbe essere più lontano dal modello prescritto dall'articolo 49 della Costituzione. I partiti sono dunque il vero «buco nero» della politica italiana.
      I partiti sono oggi l'elemento di massima debolezza del sistema politico.
      La risposta efficace alla crisi del sistema politico rimane allora affidata alla capacità di ripristinare una partecipazione democratica effettiva nei partiti. Si tratta di attuare l'indicazione dell'articolo 49 della Costituzione, che attribuisce ai «cittadini» la titolarità del diritto alla partecipazione politica attraverso i partiti.
      Sono ben note le argomentazioni che per lungo tempo hanno indotto una sostanziale diffidenza verso l'adozione di una disciplina legislativa del partito politico. Si temeva, da un lato, per l'autonomia organizzativa e il libero dispiegarsi dell'iniziativa politica secondo la specificità di ciascun partito. Si paventava, dall'altro, che la legge - pur sempre espressione di una maggioranza politica - potesse essere strumentalmente volta a danno di questo o di quel partito. Tali argomenti non erano privi di sostanza, sembra tuttavia oggi che possano essere superati. Anzitutto è mutata la condizione politica generale, non esistendo più alcuna «conventio ad excludendum» che in ipotesi precluda a questo o quel partito politico l'accesso alle funzioni di governo. Prova ne sia che dalle elezioni del 1994 in poi vi è stata una costante alternanza delle maggioranze parlamentari, ma non vi sono state alternative politiche, poiché il fondamento delle coalizioni contrapposte era identico: élites politico-partitiche distanti dai problemi e dalle esigenze dei titolari primari della sovranità, ovvero i cittadini. Le élites politiche dominanti, abusando di un diritto, hanno costituito un privilegio che, se non corretto, porterà a un sempre maggiore distacco tra cittadini ed eletti, tra la percezione della realtà che filtra all'interno del sistema dei partiti politici e quella realmente percepita dall'elettorato.
      La presente proposta di legge, prefiggendosi di sanare il vulnus arrecato alla Carta fondamentale, introduce quegli elementi minimi che possano garantire l'esercizio effettivo del metodo democratico all'interno dei partiti, sostituendosi al metodo oligarchico, sempre più presente e asfissiante nel nostro sistema politico-istituzionale.
      Il riconoscimento della personalità giuridica dei partiti politici apre le porte alla partecipazione attiva alla vita associativa: un riconoscimento che, incarnando lo spirito costituente, porterà la
 

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linfa necessaria alla rinascita dei partiti quale effettivo e accessibile strumento in mano ai cittadini per poter concorrere democraticamente alla determinazione della politica nazionale.
      Ovviamente il ruolo pubblico svolto dai partiti politici ha posto e pone il problema del loro finanziamento nonché dell'acquisizione delle risorse economiche mediante le quali essi possano effettivamente svolgere le funzioni loro proprie. Tema, questo, assai delicato e da sempre oggetto di aspre polemiche, nel quale si intrecciano valutazioni diverse che hanno dato luogo a fenomeni e a vicende di varia natura. Se, nei primi anni di vita repubblicana, il finanziamento ai partiti politici ebbe natura esclusivamente privata, dal 1974 è stato introdotto un sistema di finanziamento pubblico nella speranza di isolare il mondo della politica dalle pressioni esercitate nei suoi confronti da soggetti imprenditoriali. L'assenza di effettivi controlli causò abusi, tanto che con una consultazione referendaria del 1993 fu abrogato il sistema di finanziamento pubblico ai partiti. L'indicazione data dal corpo elettorale con il voto referendario fu quasi immediatamente disattesa, introducendo dapprima un meccanismo di contribuzione «volontaria». Ogni contribuente, all'atto della compilazione della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche poteva destinare una quota pari al quattro per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, al sistema dei partiti politici, stante l'impossibilità di devolvere a favore di uno solo tale quota. Successivamente, a causa della tiepida accoglienza, anche questo meccanismo è stato abbandonato in favore di quello attuale. La legge n. 157 del 1999, introducendo il principio del rimborso in relazione alle spese elettorali sostenute per le varie competizioni elettorali, ha surrettiziamente reintrodotto il sistema del finanziamento pubblico ai partiti politici, chiamando rimborso quello che di fatto, per l'entità delle somme erogate e per le modalità di erogazione, è un ritorno al vecchio modello.
      La vicenda descritta pone il grave e complesso problema delle modalità con le quali la politica debba trovare forme di finanziamento, ponendo poi il problema della corretta gestione dei fondi, finalizzata realmente elle esigenze elettorali dei partiti e non al reperimento dei fondi necessari alla vita quotidiana dei partiti o, nella peggiore delle ipotesi, all'arricchimento di gruppi o di persone singole.
      Per tutti questi motivi, con la presente proposta di legge, si realizza il dettato dell'articolo 49 della Costituzione, che avviene grazie all'introduzione di importanti princìpi: il riconoscimento della personalità giuridica ai partiti politici stessi, l'indicazione nello statuto degli organi dirigenti e delle relative competenze, le procedure di approvazione di atti politici, i diritti e i doveri degli iscritti, la previsione di un bilanciamento delle presenze di genere nella misura massima dei due terzi negli organi collegiali, le misure disciplinari adottabili e le corrispondenti procedure di ricorso nonché le procedure necessarie alla modifica dello statuto, del simbolo o del nome del partito stesso.
      Tutto ciò rappresenta il primo profilo della proposta di legge.
      Subito dopo si stabiliscono le procedure per accedere ai rimborsi elettorali nonché i limiti alle stesse. È prevista l'istituzione ad hoc di una sezione di controllo presso la Corte dei conti per tali spese, la possibilità di controllare e di conoscere i bilanci dei partiti politici e le spese sostenute, nonché la delega al Governo per l'emanazione di un testo unico compilativo per riunire e per coordinare le norme relative: all'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione, alle varie forme di finanziamento pubblico ai partiti politici, ai finanziamenti privati, ai rimborsi per le spese elettorali, alle agevolazioni e ai finanziamenti in favore dei candidati, ai modelli di bilancio annuale e di rendiconto delle spese elettorali nonché ai controlli e alle sanzioni, al fine di avere un corpus organico di norme al quale fare riferimento.
 

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